Diario del “Viaggio a Roma” del 1675

 

Il progetto

“Viaggio a Roma: anno 1675, anno 2007”

 

Nell’anno santo 1675 papa Clemente X inaugurò il colonnato di San Pietro

Obiettivi:
1. Sviluppare il senso di appartenenza ad una comunità sociale e politica;
2. Comprendere che la storia è il risultato di una ricostruzione del passato che si basa sulla capacità di interrogare e di interpretare le fonti.

Classi e insegnanti coinvolti: le classi terze della nostra scuola, composte da 48 alunni. Le insegnanti di lettere, l’insegnante di religione, gli insegnanti di tecnica, le insegnanti di arte. Gli insegnanti che hanno dato la disponibilità ad accompagnare le classi nel viaggio a Roma.

 

Contenuti:
studio di una relazione di viaggio manoscritta, del 1675, conservata presso l’Archivio della Partecipanza di Sant’Agata; la città di Roma, oggi e nel passato; lo Stato italiano: confronto fra Statuto Albertino, Legislazione fascista e Costituzione della Repubblica; viaggio d’istruzione a Roma di due giorni; visita al Quirinale.

 

Collaborazioni:
la dottoressa Beatrice Borghi, collaboratrice del professor Dondarini, dell’Università di Bologna, referente del Progetto de “Le radici per volare” e della “Festa della storia”, si è resa disponibile a svolgere una lezione introduttiva, a partecipare al lavoro di programmazione e di verifica.
Il signor Rodolfo Zambelli, Presidente della Partecipanza agraria di Sant’Agata Bolognese ha messo a disposizione della scuola il documento; contribuirà finanziariamente alla realizzazione del viaggio a Roma; il Comune di Sant’Agata Bolognese produrrà le fotocopie della trascrizione del manoscritto su cui lavoreranno gli studenti e contribuirà finanziariamente alla realizzazione del viaggio a Roma.

 

Tempi e organizzazione delle attività:
Ottobre – Gennaio: trascrizione del manoscritto ad opera delle insegnanti di lettere;
Febbraio – Marzo: programmazione, lezione introduttiva sul viaggio e sul pellegrinaggio in età moderna; Aprile: viaggio d’istruzione a Roma;
2 Aprile – 9 Giugno: svolgimento dei laboratori pomeridiani nelle classi terze, in cui verranno analizzati alcuni aspetti del contenuto del documento; ricerca iconografica di fonti visive coeve; confezione di un prodotto multimediale di documentazione dell’attività; partecipazione alla giornata organizzata a Bologna per la presentazione dei lavori delle scuole; verifica finale.

Questo progetto è stato realizzato dalle classi 3A, 3B, 3C nel secondo quadrimestre dell’anno scolastico 2006-2007 (nota 3). Le insegnanti di lettere, Letizia Biccari, Adriana Carli, Carla Righi hanno trascritto il documento e predisposto le attività di laboratorio, organizzato le uscite didattiche e il viaggio a Roma, curato la presentazione dell’esperienza in varie sedi.

Le tre classi hanno operato su parti diverse del manoscritto, utilizzando di volta in volta le copie dell’originale o la trascrizione, affrontando rispettivamente l’analisi delle carte dedicate all’andata, alla permanenza a Roma e al ritorno, con particolare attenzione ai percorsi e ai luoghi, all’abbigliamento, all’alimentazione, ai rapporti epistolari della delegazione con Sant’Agata, alle monete.

In occasione della partecipazione ai Parlamenti degli studenti, uno dei momenti dedicati alle scuole nel più ampio progetto della Festa della storia (nota 4), indetti il 17 maggio a palazzo D’Accursio, sei ragazzi, in rappresentanza dei compagni, hanno esposto le sintesi seguenti.

 

Il manoscritto

Leone rampante, stemma della famiglia Caprara collocato sul cancello del castello dei Ronchi di Crevalcore, Bologna.

Nel grande quadro storico del Seicento si inserisce la vicenda di una piccola comunità, quella di Sant’Agata, e di una istituzione, la Partecipanza Agraria, che affrontano in una decennale controversia la nobile famiglia dei conti Caprara.

 

Tali illustri e nobili conti, che vantavano parenti ed appoggi politici non solo a Bologna ma anche nel Granducato di Toscana e nella stessa Roma, avevano nel territorio santagatese molte terre e, in virtù di tali possedimenti, intesero appropriarsi pure dei “beni comunali” della Partecipanza, sollevando in tal modo la reazione della comunità del piccolo paese.

Ha così inizio la cosiddetta “magna lite”, ossia la disputa che, con alterne vicende, vide contrapporsi i nobili conti da una parte e i santagatesi dall’altra, dal 1636 al 1679, anno in cui venne finalmente riconosciuto il pieno diritto dei Partecipanti alle loro terre. Negli ultimi anni della controversia, e precisamente nell’Anno Santo 1675, una commissione di Partecipanti, guidata dal sacerdote don Gioseffo Maria Felicani insieme con Domenico Riva e Giovan Battista Bonfiglioli, si reca a piedi a Roma per sostenere e sollecitare risposte sulla vertenza e su altre questioni riguardanti la piccola comunità. Tale viaggio è minuziosamente documentato in tutti i suoi momenti (andata, permanenza a Roma e ritorno) da un diario scritto con bella grafia dal sacerdote che è a capo della missione.

Il lavoro delle classi terze della scuola Secondaria di Primo Grado di Sant’Agata prevede quindi proprio la lettura di tale manoscritto ed una analisi dello stesso attraverso la divisione dei compiti, nello specifico una classe si occupa del viaggio di andata, una della permanenza a Roma, l’ultima del viaggio di ritorno.

 

Il viaggio

 

Il Viaggio di andata si svolge dal 13 al 26 marzo del 1675, via Firenze (in 14 giorni i nostri “pellegrini” percorrono 220 miglia, come è scritto); la permanenza a Roma dura oltre sei mesi, cioè fino al 30 settembre, giorno nel quale il nostro bravo e simpatico sacerdote prende e da solo la via del ritorno, questa volta attraverso la strada di Loreto, ritorno che avverrà 1’11 ottobre dello stesso anno, dopo aver percorso 289 miglia, come è scritto.

 

Il quadernetto racconta di tantissime cose: luoghi, persone, usi, avvenimenti che si svolgono nella preziosa cornice della Roma dell’Anno Santo, assieme a considerazioni personali ed incarichi quotidiani dell’autore del manoscritto: le sue “visite”, le sue Messe, per vivi e per defunti, le sue comunicazioni attraverso la scrittura di numerosissime lettere, la Scala Santa fatta per se stesso e per altri membri della Comunità che egli così onestamente rappresenta…

Il manoscritto è inoltre un documento ricco di informazioni sui vari tipi di monetazione esistente: soldi, testoni, giulii, baiocchi ricorrono spesso nella quotidianità di un gruppo di eroi nostri conterranei che non doveva disporre certamente di grandi capitali, tanto da dover accettare addirittura un generoso
prestito da parte degli stessi avversari. E tante altre informazioni si hanno su vestiario, alimentazione, cura del corpo… Barilli di vino allungati con l’acqua per fare economia, fichi e melloni quale omaggio ai potenti per ingraziarseli, scofoni, candelle di sevo, quinterni di carta: non si tratta del semplice racconto di un viaggio, bensì del racconto delle difficoltà che all’epoca si incontravano e di come tali difficoltà venivano affrontate con caparbietà e con tenacia. Attraverso la lettura del quaderno abbiamo potuto vedere e capire cosa voglia dire ricevere informazioni storiche da una fonte: il racconto del passato direttamente da chi quel passato lo ha vissuto.

Don Gioseffo Maria Felicani prende quindi la strada del ritorno da solo ed è forse questo il momento del racconto più ricco di umanità: gli imprevisti, la solitudine e gli incontri non sempre felici gli fanno spesso provare sentimenti di autentico sconforto che fanno sì che egli si lasci andare al pianto.

Dopo la visita alla Santa Casa di Loreto e in seguito ad altre tappe che possano alleviare la fatica del viaggio, il nostro “eroe” giunge finalmente nella sua e nella nostra Sant’Agata “a hore 23” ed annota tra le ultime parole che il suo quaderno racconta “tutto il viaggio di Roma tanto nell’andare e tanto nel ritornare e la sua spesa, dove chi leggerà vedrà il tutto”. Forse con quel “chi leggerà” non intendeva arrivare così lontano nel tempo…

 

Sant’Agata e la Partecipanza agraria

 

Il manoscritto su cui abbiamo lavorato è un diario di viaggio. L’autore è un Santagatese, vissuto nel Seicento, che si recò a Roma per rappresentare “il popolo partecipante” nella lite che lo opponeva ai conti Caprara.

Abbiamo cercato di rispondere a due domande:
– cosa si intendeva con l’espressione Sant’Agata, nel Seicento?
– che cos’era il popolo partecipante?

 

 

Nel Seicento non esisteva il Comune come lo intendiamo oggi, cioè un’istituzione di governo locale che esercita la sua autorità su tutti i cittadini residenti in un territorio ben definito. Sant’Agata era una Comunità del Contado di Bologna, a sua volta sottomessa all’autorità del Papa.

La Comunità aveva avuto origine nell’Alto Medioevo, ma nel tempo questa parola aveva rappresentato realtà diverse.

Nell’Alto Medioevo la comunità era una realtà di fatto, cioè un insieme di famiglie che si autogovernavano. Queste famiglie erano dedite all’agricoltura. La terra era proprietà della potente Abbazia di Nonantola e, poiché era in gran parte incolta, coperta di boschi e paludi, gli abati avevano concesso alle famiglie vaste aree, con l’obbligo di bonificarle e dissodarle, in cambio di un modesto canone.

La terra era stata assegnata alle famiglie in modo collettivo, perché non era allora pensabile affrontare opere tanto gravose in pochi. Queste terre, gestite in modo comunitario, sono il nocciolo dell’attuale Comune e una parte di esse continua ad essere gestita in modo collettivo dagli eredi di quelle famiglie, attraverso l’istituto della Partecipanza.

Per comprendere la nascita della Partecipanza bisogna proseguire con la nostra storia. Nel XII secolo, cioè nel Basso Medio Evo, del nostro territorio si impadronì il Comune di Bologna che provvide a fortificare l’insediamento principale: il castello di Sant’Agata. La Comunità cominciò a coincidere con un territorio e ad essere una realtà amministrativa, dipendente da Bologna.

Alla fine del Medio Evo il tessuto economico si differenziò: agli agricoltori si aggiunse un certo numero di artigiani e di piccoli mercanti. Anche il potere non venne più esercitato in modo egualitario dai capi famiglia; si differenziarono i ruoli e i compiti: un gruppo di persone a rotazione, a capo delle quali stava il Massaro, eletto ogni sei mesi, si occupava dell’amministrazione, assumendone la responsabilità nei confronti del governo bolognese.

Nello stesso periodo, e più ancora nel corso del Cinquecento, si ebbe un processo di differenziazione nella proprietà della terra: tra le famiglie originarie, quelle che gestivano i beni comuni, ce ne furono alcune che acquisirono proprietà private, arricchendosi; inoltre, iniziò la penetrazione dei nobili e dei ricchi borghesi bolognesi: Caprara, Pepoli, Albergati, sono solo alcuni esempi di famiglie bolognesi che avevano delle “possessioni”, cioè possedevano della terra, nel territorio dell’attuale comune. Cittadini bolognesi, nobile e anche il clero, allora molto numeroso e potente, erano privilegiati, non pagavano le tasse; su di essi il governo della Comunità non aveva praticamente nessun potere.

Nel 1508 il governo della Comunità, per volere di Bologna che intanto era passata sotto il dominio del Papa, si trasformò in una oligarchia. La trasformazione fu regolata da appositi Capitoli, in base ai quali fu istituito un Consiglio di 24 membri, del quale fecero parte le famiglie originarie più ricche. La carica di
Consigliere divenne ereditaria.

Si creò così una spaccatura tra le famiglie originarie rappresentate in Consiglio e quelle escluse e nacque un conflitto. Il Consiglio si arrogava il diritto di decidere sulle terre comuni, ma le famiglie povere si ostituirono in Università partecipante e riuscirono a imporre una gestione comune.

L’Università partecipante o Partecipanza riuscì a difendere le terre comuni anche contro l’Abbazia di Nonantola che rivendicava i suoi antichi diritti e, nel Seicento, contro i Caprara, nella famosa controversia che passò alla storia santagatese come “magna lite”. La “magna lite” è appunto la causa del viaggio a Roma raccontato nel manoscritto di cui ci siamo occupati.

Il diritto della Partecipanza a gestire le terre comuni fu sancito nel 1712.

Nel 1797 fu insediata a Sant’Agata la prima Municipalità, cioè un governo locale di tutti i cittadini, secondo le idee della Rivoluzione francese portate in Italia da Napoleone.

Attualmente le Partecipanze emiliane sono sei: Sant’Agata Bolognese, San Giovanni in Persiceto, Nonantola, Cento, Pieve di Cento, Villa Fontana. Non esistono più le Partecipanze di Crevalcore, Budrio e Medicina.

A Sant’Agata, le famiglie originarie che si dividono i beni comuni sono 18. La ripartizione dei terreni si fa ogni 18 anni. A capo della Partecipanza vi sono un Consiglio e una Giunta. La Partecipanza è un ente autonomo, ma i partecipanti sono cittadini di Sant’Agata, come tutte le altre persone che lì hanno la residenza.

 

Sant’Agata nel Seicento

 

II Cinquecento si chiude con un periodo di carestia e di difficoltà per la zona del persicetano e di Sant’Agata in particolare, terra di confine tra le ambizioni di Modena e Bologna. In particolare, una testimonianza del 1601 afferma che la Casa del Comune era stata occupata per circa quattro anni dai soldati dell’esercito del Papa, arrivati per opporsi ai modenesi; tutti, comunque, patiscono la fame anche perché la Muzza (attuale Muzzonchio) non ha un percorso stabile e spesso le sue acque straripano e allagano i terreni del Comune e della Partecipanza, rovinando i raccolti. In questo periodo la Comunità e l’Università Partecipante sono ancora unite e si provvede periodicamente alla nomina di un Massaro.

Nel 1607 inizia la presenza dei frati agostiniani a Sant’Agata e da loro prende il nome uno dei luoghi “cardine” della topografia del paese: l’antica chiesa di Santa Maria in Strada diventa per tutti la “chiesa dei frati”, che esiste ancora oggi, mentre i frati non ci sono più da tempo. Nel territorio del Comune aumentano gli insediamenti e permane la necessità di difendere i confini, infatti si ritiene opportuno costruire una strada che colleghi il centro abitato a Crocetta e consenta gli spostamenti dei soldati di guardia lungo la Zena e la Muzza. Continue sono le contese con i Comuni vicini, soprattutto per l’utilizzo delle acque dei diversi canali per l’agricoltura o per il funzionamento dei numerosi mulini esistenti. Si sa che diversi gruppi di soldati hanno soggiornato per periodi più o meno lunghi nel territorio del Comune, gravando sulla Comunità e facendo razzia di oggetti vari alla loro partenza. I terragli vengono periodicamente rinforzati, la porte ristrutturate: ciò indica una continua necessità di difendere in modo adeguato almeno il Castello, il centro urbano.

In questi stessi anni viene costruito l’edificio dell’oratorio della Madonna di San Luca e si inizia a pensare ad una nuova costruzione per la chiesa parrocchiale, che viene completata nel 1629.

La peste che devasta a più riprese l’Europa del Seicento tocca anche Sant’Agata: nel 1630 si hanno notizie di diversi casi di malattia, mentre la carestia dilaga. Si parla di 18.000 vittime nel contado di Bologna. Negli anni successivi, il nostro territorio vede scontri continui tra eserciti di diversi signori locali, che appartengono ai diversi schieramenti in campo in Europa per la guerra dei Trent’anni (1618-1648).

Capitani di ventura ed eserciti mercenari percorrono la nostra pianura e provocano continue devastazioni, razzie e saccheggi che sfiancano la popolazione. Per avere qualche entrata supplementare la Comunità concedeva lo sfruttamento a pagamento della pesca nel canale che circondava il castello, dei gelsi per nutrire i bachi da seta, di alcuni locali interni alla porta di sopra; la suddivisione delle “Parti” era senza dubbio l’entrata principale.

Una grossa lite (la Magna Lite) interessò a lungo la Comunità e l’Università Partecipante contro la nobile famiglia dei Caprara, in merito ad un fondo particolarmente importante. Si concluse nel 1679, anche grazie al diretto interessamento del Papa, dopo vicende complesse e lungaggini che possono solo essere intuite dal manoscritto di cui ci occupiamo. Proprio nel 1679 è nuovamente possibile riprendere il normale ciclo dell’assegnazione delle divisioni novennali dei “beni comunali”.

A chiusura del secolo, proprio per sottolineare come la grande Storia entri a sconvolgere la vita quotidiana di un paese agricolo che chiedeva solo di essere dimenticato dai potenti per vivere un po’ in pace, si ha notizia di santagatesi arruolati per far parte dell’esercito che difende la cristianità (Vienna è assediata) dai Turchi.

Il 30 maggio, presso il teatro F. Bibiena, l’esperienza è stata presentata alle famiglie e ai cittadini. Hanno partecipato Rolando Dondarini e Beatrice Borghi dell’Università di Bologna, il presidente della Partecipanza agraria, Rodolfo Zambelli, il sindaco Daniela Occhiali e la dirigente dell’istituto comprensivo Angela Pessina.

 

Alla volta di Roma

 

Giuseppe Maria Felicani rimase assente da Sant’Agata per 213 giorni; partì il 13 marzo 1675 assieme ai compaesani Domenico Riva e Giovanni Battista Bonfiglioli e, per la via di Toscana, raggiunse Roma il 26 marzo; lasciò la città il 30 settembre, da solo, e fece ritorno, per la via di Loreto, l’11 ottobre. Percorse 220 miglia all’andata e 289 miglia al ritorno. La prima domanda che ci si pone, leggendo la relazione, riguarda la scelta di una via diversa e più lunga per il ritorno. Accanto alle motivazioni religiose, il 1675 era un anno santo e Loreto era una meta importante nel circuito delle reliquie, pesarono senz’altro ragioni pratiche: il secondo itinerario era interno allo Stato della chiesa, le strade erano più comode. Nel 1739 Charles De Brosses, autore del celebre Viaggio in Italia, percorse la stessa strada da Bologna a Roma (nota 5); facendo seguito a svariate lamentele per i disagi subiti, giunto quasi alla fine del percorso, racconta come non avesse mai trovato “niente di più orribile, niente di più faticoso della strada da Siena al lago di Bolsena” e pertanto avesse maturato il proposito di passare al ritorno per la Marca di Ancona, nonostante ciò comportasse un allungamento del cammino. Lo stesso autore inoltre, descrivendo la giornata di posta fra Bologna e Firenze, segnala la difficoltà di alcuni tratti dell’Appennino Toscano, ad esempio la discesa da monte Giogo, che ovviamente sarebbero risultati maggiormente ardui al ritorno (nota 6). La scelta di una via più comoda si impose forse in considerazione del fatto che il prete avrebbe dovuto affrontare il viaggio di ritorno da solo. Le due modalità di viaggio, andata con amici fidati, ritorno con compagni occasionali e solo in alcune tappe, si riflettono nella qualità della scrittura, preciso ma essenziale il primo resoconto, espressivo e partecipato il secondo (nota 7). Un confronto tra i due richiederebbe ben altro spazio; qui si analizzano alcuni aspetti del viaggio da Sant’Agata a Roma.

Non fu un pellegrinaggio. Coi pellegrini i tre viandanti ebbero in comune il fatto di camminare dall’alba al tramonto, quasi sempre a piedi, ma l’abbigliamento che comprendeva accanto al tradizionale bordone anche un fucile, l’itinerario percorso e soprattutto i tempi, ci fanno comprendere come essi viaggiassero spinti dall’urgenza del loro compito e dalla preoccupazione di non gravare sulla Comunità con spese inutili. La relazione, organizzata per giornate, è molto precisa: fornisce informazioni sulle miglia percorse, sulle località attraversate, sulle soste nelle osterie e sulle spese relative, sulle chiese dove il prete celebrò le messe di un lascito testamentario, sulle condizioni meteorologiche. Il viaggio si svolse in quattordici giorni, ma poiché i tre Santagatesi portatisi a Bologna il giorno 13 marzo vi rimasero per due giorni, possiamo ridurre a dodici giorni la sua durata, undici dei quali da Bologna a Roma. Come si è detto, nel manoscritto è indicata chiaramente la distanza percorsa: 220 miglia, di cui 207 da Bologna a Roma, ma non si precisa a quale miglio si faccia riferimento; ipotizzando che si tratti del miglio bolognese, pari a 1900 metri (nota 8), si avrebbe una lunghezza di 418 Km, 393 da Bologna a Roma; tenendo conto che il percorso più breve indicato dalla carta stradale da Bologna a Roma è attualmente di circa 380 Km i conti tornano; ma ciò non è sufficiente per rappresentarsi il viaggio nel suo sviluppo, per l’ovvia considerazione che la rete stradale si è ampliata e modificata dal ‘600 ad oggi. Seguendo le scrupolose indicazioni fornite dal Giuseppe Maria Felicani sulle località raggiunte via via, si arriva a una lunghezza di 435 Km circa, 405 da Bologna a Roma. Si tratta di dati tutto sommato compatibili. Il patrimonio di conoscenze e di esperienze costruito nei secoli da mercanti, corrieri, pellegrini, pemise ai tre Santagatesi di individuare la via più breve per raggiungere Roma. Le loro qualità personali li sorressero nel compimento di una vera e propria impresa (nota 9).

Ad eccezione della distanza da Sant’Agata a Bologna, percorsa con due cavalli, e del tratto Monterosi – La Storta, percorso in diligenza, marciarono a piedi, a una media di quasi 39 Km al giorno, in una stagione poco favorevole, a volte sotto la pioggia e la neve. Seguendo le indicazioni della relazione si può individuare sulla carta attuale l’itinerario del viaggio (nota 10). Esso si articola lungo strade che mantengono ancora una grande importanza, come la Via Cassia, e altre strade, diventate col tempo secondarie; il tracciato di alcune vie, e di nuovo si potrebbe portare la Cassia come esempio, è stato modificato successivamente. La quasi totalità dei centri abitati è ancora esistente (nota 11), così come le chiese citate. Le osterie dove la delegazione alloggiò o si fermò per pranzare hanno a volte nomi suggestivi, il Pavone, il Giglio… spesso il loro nome coincide con quello di una località attualmente segnalata dalla carta stradale, Pietramala osteria, Giogo osteria, Bargino osteria; del servizio da esse fornito si dà spesso una efficace valutazione (nota 12); quando la località raggiunta è un castello, molte volte viene preferita un’osteria fuori mura, probabilmente per non essere vincolati agli orari di apertura delle porte.

Un’ ultima considerazione a proposito della misura del tempo. Spesso si trovano annotazioni sulle ore, ad esempio l’ora di arrivo in una località : “…giungessimo a Viterbo Città a hore 23”; essendo che il calcolo delle ore, in Italia, fino all’Età napoleonica, era effettuato a partire dal calar del sole (nota 13), si può presumere che l’arrivo in città fosse avvenuto verso le 18, così come intorno alle 9 è da collocare l’arrivo a Roma: “Adì 26 detto giorno di martedì entrassimo in Roma a Dio piacendo la mattina a hore 15”.

N.B.: Per i dettagli del viaggio di Roma, Vi rimandiamo alla trascrizione del manoscritto.

 

NOTE

 

3. Per ragioni di spazio si elencano per ogni classe solo gli alunni che hanno partecipato ai laboratori
pomeridiani; 3A: T. Abatiello, M. Astolfi, M. Cosenza, M. Esposito, M. Gherardi, C. Giametta, B.
Gray, D. Lo Galbo, G. Mercadante, M. Olmi, L. Piazza, C. Pizzi, M. Salerno, A. Santagiuliana, O.
Taleb, A. Zambelli. 3B: B. Ballotta, H. El Lussi, F. Laganà, P. Laiso, A. Molli, A. Abdoulaye, V. Piccolo,
A. Romagnoli, V. Speranza, L. Stanzani, F. Vecchi, M. Verde, A. Zecchi. 3C: L. Bongiovanni, C.
Citak, A. D’Urso, M. Fiorini, G. Galiera, M.Govoni, L. Lugli, E. Nonato, D. Raimondo, A. Scorza,
E. Serra, J. Tayaa, N. Veronesi.

4. La Festa della storia è stata ideata da Rolando Dondarini, docente di Storia Medievale e di
Didattica della storia dell’Università di Bologna “come occasione di confronto e di proposta sulle
molteplici forme di divulgazione della storia svolte in Italia e in Europa”, R. Dondarini, Sulle tracce della
nostra storia, in Un passamano per san Luca. Pellegrinaggi protetti. Solidarietà civiche e realizzazioni
architettoniche sulle vie della fede, a cura di B. Borghi, Bologna, 2004.

5 Ch. De Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari, Bari, 1973. Il viaggio fu compiuto nel 1739,
il testo fu pubblicato nel 1799. Il percorso da Bologna a Roma viene documentato nelle lettere
XXIII e XXVIII.

6 L’attuale statale 65, della Futa, fu aperta sul versante toscano negli anni 1749-53, Guida d’Italia
del T.C.I., Toscana, 1974, p. 325.

7 Il diario del viaggio di andata richiede tre carte, cinque carte più una facciata sono necessarie
per il racconto del viaggio di ritorno.

8 Trattato elementare d’aritmetica, a cura di A.C., Torino, Paravia, 1880.

9 Un esempio simile è quello citato da G. Cherubini, Pellegrini, pellegrinaggi, giubileo nel Medioevo,
Napoli, 2005, pp. 55,56: due religiosi, nel 1504, da Bologna raggiunsero Roma per presentare una supplica
al papa; impiegarono dodici giorni; le località citate fanno pensare a un’identità di percorso.

10 Nel 1675 l’itinerario comportava l’attraversamento del Granducato di Toscana. Il primo confine si
trovava in località Le Filigare ove si trova ancora il fabbricato della dogana pontificia; si rientrava nello
Stato della chiesa a Radicofani.

11 San Lorenzo vecchio o san Lorenzo Castello come viene denominato nella relazione fu abbandonato
successivamente per malaria; San Lorenzo nuovo fu costruito per volontà di Pio VI negli anni 1775-79.
Guida d’Italia del T.C.I., Lazio, 2005.

12 Mi hanno incuriosito le annotazioni sull’osteria della Posta, a Radicofani, perché divergono da
quelle solite; ecco cosa risulta nella Guida d’Italia del T.C.I., Toscana, 1974, p. 611: “Presso l’abitato,
lungo la vecchia Cassia che lo aggira a O e a S, di fronte a una fontana tardo-rinascimentale con stemma
mediceo, sorge il cosiddetto Palazzo la Posta, villa medicea di gusto manieristico con prospetto
a doppio ordine di logge. Sorta come casa di caccia di Ferdinando I, fu poi da lui trasformata in
albergo-dogana tra il Granducato e lo Stato pontificio. Vi sostarono, tra altri personaggi, Montaigne,
Chateaubriand, Pio VI, Pio VII, e Dickens.”

13 Per la misura del tempo è interessante perché riferito al nostro territorio il saggio intitolato
“Amarsi al tempo che si sgarbiva la fava. Le opere e i giorni in campagna e in città”, in O. Piccoli,
Storie di ogni giorno in una città del Seicento, Bari, 2000.